Encuentro del Papa Francisco con religiosas y religiosos de la diócesis de Roma

Como parte de las diversas celebraciones especiales entorno al Año de la Vida consagrada, el Papa Francisco ha tenido un significante encuentro con miles de religiosos y religiosas de la diócesis de Roma.




El multitudinario encuentro se ha realizado el sábado 16 de mayo en el Aula Pablo VI.

En su dialogo-respuesta el Papa Francisco a exhortado a los religiosos y a las religiosas a:

1. Estar atentos a las necesidades del otro en la propia comunidad o diócesis.
2. Tener paciencia y perdonar sin críticas.
3. Ser "madres" que no expulsa a sus hijos, de lo contrario se convierte en madrasta.
4. Testimoniar la misericordia.
5. Estar siempre con la sonrisa en los labios, porque la sonrisa de las monja abre el corazón.
6. No sentirse excluidas, sino, entrar en contacto con quien toca la puerta de los monasterios.
7. Acompañar en la dirección espiriual a los laicos
8. Rezar por los obispos y sacerdotes.

Finalmente, ha felicitado y elogiado a una religiosas de 97 años de edad por su fidelidad y perseverancia.

Ofrecemos las preguntas (por parte de los religiosos) y respuestas del Papa Francisco.




Prima domanda (Sr. Fulvia Sieni, Agostiniana del Monastero dei Santi Quattro Coronati)
I monasteri vivono un delicato equilibrio tra nascondimento e visibilità, clausura e coinvolgimento nella vita diocesana, silenzio orante e parola che annuncia. In che modo un monastero urbano può arricchire e lasciarsi arricchire dalla vita spirituale della Diocesi e dalle altre forme di vita consacrata, mantenendosi saldo nelle sue prerogative monastiche?

Prima risposta

Lei parla di un delicato equilibrio tra nascondimento e visibilità. Io dirò di più: una tensione fra nascondimento e visibilità. La vocazione monastica è questa tensione, tensione nel senso vitale, tensione di fedeltà. L’equilibrio si può intendere come “bilanciamo, tanto di qua, tanto di là…”. Invece la tensione è la chiamata di Dio verso la vita nascosta e la chiamata di Dio a farsi visibili in un certo modo. Ma come deve essere questa visibilità e come deve essere questa vita nascosta? E’ questa tensione che voi vivete nella vostra anima. E’ questa la vostra vocazione: siete donne “in tensione”: in tensione fra questo atteggiamento di cercare il Signore e nascondersi nel Signore, e questa chiamata a dare un segno. Le mura del monastero non sono sufficienti per dare il segno. Ho ricevuto una lettera, 6-7 mesi fa, di una suora di clausura che aveva incominciato a lavorare con i poveri, nella portineria; e poi è uscita a lavorare fuori con i poveri; e poi è andata avanti di più e di più, e alla fine ha detto: “La mia clausura è il mondo”. Io le ho risposto: “Dimmi, cara, tu hai la grata portatile?”. Questo è uno sbaglio.

Un altro sbaglio è di non voler sentire niente, vedere niente. “Padre, le notizie possono entrare in monastero?”. Devono! Ma non le notizie – diciamo – dei media “chiacchieroni”; le notizie di che cosa succede nel mondo, le notizie – per esempio – delle guerre, delle malattie, di quanto soffre la gente. Per questo una delle cose che mai, mai dovete lasciare è un tempo per ascoltare la gente! Anche nelle ore di contemplazione, di silenzio… Alcuni monasteri hanno la segreteria telefonica e la gente chiama, chiede preghiera per questo, per quest’altro: questo collegamento con il mondo è importante! In alcuni monasteri si vede il telegiornale; non so, questo è discernimento di ogni monastero, secondo la regola. In altri arriva il giornale, si legge; in altri si fa questo collegamento in un’altra maniera. Ma sempre è importante il collegamento col mondo: sapere che cosa succede. Perché la vostra vocazione non è un rifugio; è andare proprio in campo di battaglia, è lotta, è bussare al cuore del Signore per quella città. E’ come Mosè che teneva le mani in alto, pregando, mentre il popolo combatteva (cfr Es 17,8-13).

Tante grazie vengono dal Signore in questa tensione tra la vita nascosta, la preghiera e il sentire le notizie della gente. In questo la prudenza, il discernimento, vi farà capire quanto tempo va a una cosa, quanto tempo all’altra. Ci sono anche monasteri che si occupano mezz’ora al giorno, un’ora al giorno di dare da mangiare a coloro che vengono a chiederlo; e questo non va contro il nascondimento in Dio. E’ un servizio; è un sorriso. Il sorriso delle monache apre il cuore! Il sorriso delle monache sfama più del pane quelli che vengono! Questa settimana tocca a te dare da mangiare quella mezz’ora ai poveri che chiedono anche un panino. Chi questo, chi l’altro: questa settimana tocca a te sorridere ai bisognosi! Non dimenticate questo. A una suora che non sa sorridere manca qualcosa.

Nel monastero ci sono problemi, lotte – come in ogni famiglia – piccole lotte, qualche gelosia, questo, quest’altro... E questo ci fa capire quanto soffre la gente nelle famiglie, le lotte nelle famiglie; quando litigano marito e moglie e quando ci sono le gelosie; quando si separano le famiglie… Quando anche voi avete questo tipo di prova – sempre ci sono queste cose –, sentire che quella non è la strada e offrire al Signore, cercando una strada di pace, dentro il monastero, perché il Signore faccia la pace nelle famiglie, fra la gente.

“Ma mi dica, Padre, noi leggiamo spesso che nel mondo, nella città, c’è la corruzione; anche nei monasteri ci può essere la corruzione?”. Sì, quando si perde la memoria. Quando si perde la memoria! La memoria della vocazione, del primo incontro con Dio, del carisma che ha fondato il monastero. Quando si perde questa memoria e l’anima comincia ad essere mondana, pensa cose mondane e si perde quello zelo della preghiera di intercessione per la gente. Tu hai detto una parola bella, bella, bella: “Il monastero è presente nella città, Dio è nella città e noi sentiamo i rumori della città”. Quei rumori, che sono rumori di vita, rumori dei problemi, rumori di tanta gente che va a lavorare, che torna dal lavoro, che pensa queste cose, che ama…; tutti questi rumori vi devono spingere a lottare con Dio, con quel coraggio che aveva Mosè. Ricordati di quando Mosè era triste perché il popolo andava per una strada sbagliata. Il Signore ha perso la pazienza e ha detto a Mosè: “Io distruggerò questo popolo! Ma tu stai tranquillo, ti metterò a capo di un altro popolo”. Cosa ha detto Mosè? Cosa ha detto? “No! Se tu distruggi questo popolo, distruggi anche me!” (cfr Es 32,9-14). Questo legame con il tuo popolo è la città. Dire al Signore: “Questa è la mia città, è il mio popolo. Sono i miei fratelli e le mie sorelle”. Questo vuol dire dare la vita per il popolo. Questo delicato equilibrio, questa delicata tensione significa tutto questo.

Non so come fate voi Agostiniane dei Santi Quattro: c’è la possibilità di ricevere persone nel parlatorio… Quante grate avete? Quattro o cinque? O non c’è più la grata… E’ vero che si può scivolare in alcune imprudenze, dare tanto tempo per parlare – santa Teresa dice tante cose su questo – ma vedere la vostra gioia, vedere la promessa della preghiera, dell’intercessione, alla gente fa tanto bene! E voi, dopo una mezzoretta di chiacchiera, tornate al Signore. Questo è molto importante, molto importante! Perché la clausura ha sempre bisogno di questo collegamento umano. Questo è molto importante.

La domanda finale è: come un monastero può arricchire e lasciarsi arricchire dalla vita spirituale della diocesi e dalle altre forme di vita consacrata, mantenendosi saldo nelle sue prerogative monastiche? Sì, la diocesi: pregare per il vescovo, per i vescovi ausiliari e per i sacerdoti. Ci sono bravi confessori dappertutto! Alcuni non tanto bravi…. Ma ce ne sono di bravi! Io so di sacerdoti che vanno nei monasteri a sentire cosa dice una monaca, e fate tanto bene ai sacerdoti. Pregate per i sacerdoti. In questo delicato equilibrio, in questa delicate tensione c’è anche la preghiera per i sacerdoti. Pensate a santa Teresa di Gesù Bambino… Pregare per i sacerdoti, ma anche ascoltare i sacerdoti, ascoltarli quando vengono, in quei minuti del parlatorio. Ascoltare. Io conosco tanti, tanti sacerdoti che – permettetemi la parola – si sfogano parlando con una monaca di clausura. E poi il sorriso, la parolina e la sicurezza della preghiera della suora li rinnova e tornano in parrocchia felici. Non so se ho risposto…

Seconda domanda (Iwona Langa, Ordo virginum, Casa-famiglia Ain Karim)

Il matrimonio e la verginità cristiana sono due modi per realizzare la vocazione all’amore. Fedeltà, perseveranza, unità del cuore, sono impegni e sfide sia per gli sposi cristiani sia per noi consacrati: come illuminare la strada gli uni degli altri, gli uni per gli altri, e camminare insieme verso il Regno?

Seconda risposta

Come la prima suora, Suor Fulvia Sieni, era – diciamo – “in carcere”, quest’altra suora è… “sulla strada”. Tutt’e due portano la parola di Dio alla città. Lei faceva una bella domanda: “L’amore nel matrimonio e l’amore nella vita consacrata è lo stesso amore?”. Ha quelle qualità di perseveranza, di fedeltà, di unità, di cuore? Ci sono impegni e sfide? Per questo le consacrate si dicono spose del Signore. Sposano il Signore. Io avevo uno zio la cui figlia si è fatta suora e diceva: “Adesso io sono cognato del Signore! Mia figlia ha sposato il Signore”. C’è nella consacrazione femminile una dimensione sponsale. Nella consacrazione maschile, pure: del vescovo si dice che è “sposo della Chiesa”, perché è al posto di Gesù, sposo della Chiesa. Ma questa dimensione femminile – vado un po’ fuori dalla domanda, per tornarvi – nelle donne è molto importante. Le suore sono l’icona della Chiesa e della Madonna. Non dimenticare che la Chiesa è femminile: non è il Chiesa, è la Chiesa. E per questo la Chiesa è sposa di Gesù. Tante volte dimentichiamo questo; e dimentichiamo questo amore materno della suora, perché materno è l’amore della Chiesa; questo amore materno della suora, perché materno è l’amore della Madonna. La fedeltà, l’espressione dell’amore della donna consacrata, deve – ma non come un dovere, ma per connaturalità – rispecchiare la fedeltà, l’amore, la tenerezza della Madre Chiesa e della Madre Maria. Una donna che non entra, per consacrarsi, su questa strada, alla fine sbaglia. La maternità della donna consacrata! Pensare tanto a questo. Come è materna Maria e come è materna la Chiesa.

E tu domandavi: come illuminare la strada gli uni degli altri, gli uni per gli altri, e camminare verso il Regno? L’amore di Maria e l’amore della Chiesa è un amore concreto! La concretezza è la qualità di questa maternità delle donne, delle suore. Amore concreto. Quando una suora incomincia con le idee, troppe idee, troppe idee… Ma cosa faceva santa Teresa? Quale consiglio dava santa Teresa, la grande, alla superiora? “Dalle una bistecca e poi parliamo”. Farla scendere alla realtà. La concretezza. E la concretezza dell’amore è molto difficile. E’ molto difficile! E di più quando si vive in comunità, perché i problemi della comunità tutti li conosciamo: le gelosie, le chiacchiere; che questa superiora è questo, che l’altra è quello… -. Queste cose sono cose concrete, ma non buone! La concretezza della bontà, dell’amore, che perdona tutto! Se deve dire una verità, la dice in faccia, ma con amore; prega prima di fare un rimprovero e poi chiede al Signore che vada avanti con la correzione. E’ l’amore concreto! Una suora non può permettersi un amore sulle nuvole; no, l’amore è concreto.

E com’è la concretezza della donna consacrata? Com’è? Tu puoi trovarla in due brani del Vangelo. Nelle Beatitudini: ti dicono che cosa tu devi fare. Gesù, il programma di Gesù, è concreto. Tante volte io penso che le Beatitudini sono la prima Enciclica della Chiesa. E’ vero, perché tutto il programma è lì. E poi la concretezza la trovi nel protocollo sul quale tutti noi saremo giudicati: Matteo 25. La concretezza della donna consacrata è lì. Con questi due brani tu puoi vivere tutta la vita consacrata; con queste due regole, con queste due cose concrete, facendo queste cose concrete. E facendo queste cose concrete tu puoi arrivare anche ad un grado, ad un’altezza di santità e di preghiera molto grande. Ma ci vuole concretezza: l’amore è concreto! E il vostro amore di donne è un amore materno concreto. Una mamma mai sparla dei figli. Ma se tu sei suora, in convento o in comunità laicale, tu hai questa consacrazione materna e non ti è lecito sparlare delle altre suore! No. Sempre scusarle, sempre! E’ bello quel passo dell’autobiografia di santa Teresa di Gesù Bambino, quando trovava quella suora che la odiava. Cosa faceva? Sorrideva e andava avanti. Un sorriso di amore. E cosa faceva quando doveva accompagnare quella suora che era sempre scontenta, perché zoppicava da tutte e due le gambe e poverina era ammalata: cosa faceva? Faceva il meglio! La portava bene e poi le tagliava anche il pane, le faceva qualcosa di più. Ma mai la critica di nascosto! Quello distrugge la maternità. Una mamma che critica, che sparla dei suoi figli non è madre! Credo che si dica “matrigna” in italiano… Non è madre. Io ti dirò questo: l’amore – e tu vedi che è anche coniugale, è la stessa figura, la figura della maternità nella Chiesa – è la concretezza. La concretezza. Io vi raccomando di fare questo esercizio: leggere spesso le Beatitudini, e leggere spesso Matteo 25, il protocollo del Giudizio. Questo fa tanto bene per la concretezza del Vangelo. Non so, finiamo qui?

Terza domanda (P. Gaetano Saracino, Missionario Scalabriniano, Parroco del SS. Redentore)

Come mettere in comune e far fruttificare i doni di cui sono portatori i diversi carismi in questa Chiesa locale così ricca di talenti? Spesso è difficile anche solo la comunicazione dei diversi percorsi, siamo incapaci di mettere insieme le forze tra congregazioni, parrocchie, altri organismi pastorali, associazioni e movimenti laicali, quasi vi fosse concorrenzialità invece che servizio condiviso. A volte, poi, noi consacrati ci sentiamo come “tappabuchi”. Come “camminare insieme”?

Terza risposta

Io sono stato in quella parrocchia e conosco cosa fa questo prete rivoluzionario: lavora bene! Lavora bene! Tu hai cominciato a parlare della festa. E’ una delle cose che noi cristiani dimentichiamo: la festa. Ma la festa è una categoria teologica, c’è anche nella Bibbia. Quando tornate a casa, prendete Deuteronomio 26. Lì Mosè, a nome del Signore, dice cosa devono fare i contadini ogni anno: portare i primi frutti del raccolto al tempio. Dice così: “Tu vai al tempio, porta il cesto con i primi frutti per offrirli al Signore come ringraziamento”. E poi? Primo, fa’ memoria. E gli fa recitare un piccolo credo: “Mio padre era un arameo errante, Dio lo ha chiamato; siamo stati schiavi in Egitto, ma il Signore ci ha liberato e ci ha dato questa terra… “ (cfr Dt 26,5-9). Primo, la memoria. Secondo, dai il cesto all’incaricato. Terzo, ringrazia il Signore. E quarto, torna a casa e fai festa. Fai festa e invita quelli che non hanno famiglia, invita gli schiavi, quelli che non sono liberi, anche il vicino invita alla festa… La festa è una categoria teologica della vita. E non si può vivere la vita consacrata senza questa dimensione festosa. Si fa festa. Ma fare festa non è lo stesso di fare chiasso, rumore… Fare festa è quello che c’è in quel brano che ho citato. Ricordatevi: Deuteronomio 26. C’è il fine di una preghiera: è la gioia di ricordare tutto quello che il Signore ha fatto per noi; tutto quello che mi ha dato; anche quel frutto per il quale io ho lavorato e faccio festa. Nelle comunità, anche nelle parrocchie come nel caso tuo, dove non si fa festa – quando capita di farla – manca qualcosa! Sono troppo rigidi: “Ci farà bene alla disciplina”. Tutto ordinato: i bambini fanno la Comunione, bellissima, si insegna un bel catechismo... Ma manca qualcosa: manca chiasso, manca rumore, manca festa! Manca il cuore festoso di una comunità. La festa. Alcuni scrittori spirituali dicono che anche l’Eucaristia, la celebrazione dell’Eucaristia è una festa: sì, ha una dimensione festosa nel commemorare la morte e la risurrezione del Signore. Questo io non ho voluto lasciarlo perdere, perché non era proprio nella tua domanda, ma nella tua riflessione interiore.

E poi tu parli della concorrenzialità fra questa parrocchia e quella, questa congregazione e quella… Una delle cose più difficili per un vescovo è fare l’armonia nella diocesi! E tu dici: “Ma i religiosi per il vescovo sono tappabuchi?”. Alcune volte può darsi… Ma io ti faccio un’altra domanda: Quando faranno vescovo te, per esempio - mettiti al posto del vescovo – hai una parrocchia, con un bravo parroco religioso; tre anni dopo viene il provinciale e ti dice: “Questo lo cambio e te ne mando un altro”. Anche i vescovi soffrono per questo atteggiamento. Tante volte – non sempre, perché ci sono religiosi che entrano in dialogo con il vescovo – noi dobbiamo fare la nostra parte. “Abbiamo avuto un capitolo e il capitolo ha deciso questo…”. Tante religiose e religiosi passano la vita se non in capitoli, in versetti… Ma sempre la passano così! Io prendo la libertà di parlare così, perché sono vescovo e sono religioso. E capisco ambedue le parti, e capisco i problemi. E’ vero: l’unità fra i diversi carismi, l’unità del presbiterio, l’unità col vescovo… E questo non è facile trovarlo: ognuno tira per il suo interesse, non dico sempre, ma c’è questa tendenza, è umana… E c’è un po’ di peccato dietro, ma è cosi. E’ così. Per questo la Chiesa, in questo momento, sta pensando di offrire un vecchio documento, di ripristinarlo, sulle relazioni tra il religioso e il vescovo. Il Sinodo del ’94 aveva chiesto di riformarlo, il “Mutuae relationes” (14 maggio 1978). Sono passati tanti anni e non è stato fatto. Non è facile il rapporto dei religiosi con il vescovo, con la diocesi o con i sacerdoti non religiosi. Ma bisogna impegnarsi per il lavoro comune. Nelle prefetture, come si lavora sul piano pastorale in questo quartiere, in questo tutti insieme? Così si fa la Chiesa. Il vescovo non deve usare i religiosi come tappabuchi, ma i religiosi non devono usare il vescovo come fosse il padrone di una ditta che dà un lavoro. Non so… Ma la festa, voglio tornare alla cosa principale: quando c’è comunità, senza interessi propri, sempre c’è spirito di festa. Io ho visto la tua parrocchia ed è vero. Tu sai farlo! Grazie.

Quarta domanda (P. Gaetano Greco, Terziario Cappuccino dell’Addolorata, Cappellano del Carcere Minorile di Casal del Marmo)

La vita consacrata è un dono di Dio alla Chiesa, un dono di Dio al suo Popolo. Non sempre però questo dono è apprezzato e valorizzato nella sua identità e nella sua specificità. Spesso le comunità, soprattutto femminili, nella nostra Chiesa locale hanno difficoltà a trovare seri accompagnatori e accompagnatrici, formatori, direttori spirituali, confessori. Come riscoprire questa ricchezza? La vita consacrata per l’80% ha un volto femminile. Com’è possibile valorizzare la presenza della donna e in particolare della donna consacrata nella Chiesa?

Quarta risposta

Padre Gaetano nella sua riflessione, mentre raccontava la sua storia, ha parlato di quella “sostituzione di 2-3 settimane” che doveva fare al carcere minorile. E’ lì da 45 anni, credo. Lo ha fatto per obbedienza. “Il tuo posto è lì”, gli ha detto il superiore. E a malincuore gli obbedì. Poi ha visto che quell’atto di obbedienza, quello che gli aveva chiesto il superiore, era volontà di Dio. Mi permetto, prima di rispondere alla domanda, di dire una parola sull’obbedienza. Quando Paolo vuole dirci il mistero di Gesù Cristo usa questa parola; quando vuol dire come è stata la fecondità di Gesù Cristo, usa questa parola: “Si è fatto obbediente fino alla morte e morte di croce” (cfr Fil 2,8). Umiliò se stesso. Obbedì. Il mistero di Cristo è un mistero di obbedienza, e l’obbedienza è feconda. E’ vero che come ogni virtù, come ogni luogo teologico, può essere tentata di diventare un atteggiamento disciplinare. Ma l’obbedienza nella vita consacrata è un mistero. E così come ho detto che la donna consacrata è l’icona di Maria e della Chiesa, possiamo dire che l’obbedienza è l’icona della strada di Gesù. Quando Gesù si è incarnato per obbedienza, si è fatto uomo per obbedienza, fino alla croce e alla morte. Il mistero dell’obbedienza non si capisce se non alla luce di questa strada di Gesù. Il mistero dell’obbedienza è un assomigliare a Gesù nel cammino che Lui ha voluto fare. E i frutti si vedono. E ringrazio padre Gaetano per la sua testimonianza su questo punto, perché si dicono molte parole sull’obbedienza – il dialogo previo, sì tutte queste cose sono buone, non sono cattive – ma che cos’è l’obbedienza? Andate alla Lettera dei Paolo ai Filippesi, capitolo 2: è il mistero di Gesù. Soltanto lì possiamo capire l’obbedienza. Non ai capitoli generali o provinciali: lì si potrà approfondire, ma capirla, soltanto nel mistero di Gesù.

Adesso passiamo alla domanda: la vita consacrata è un dono, un dono di Dio alla Chiesa. E’ vero. E’ un dono di Dio. Voi parlate della profezia: è un dono di profezia. E’ Dio presente, Dio che vuole farsi presente con un dono: sceglie uomini e donne, ma è un dono, un dono gratuito. Anche la vocazione è un dono, non è un arruolamento di gente che vuole fare quella strada. No, è il dono al cuore di una persona; il dono ad una congregazione; e anche quella congregazione è un dono. Non sempre, però, questo dono è apprezzato e valorizzato nella sua identità e nella sua specificità. Questo è vero. C’è la tentazione di omologare i consacrati, come se fossero tutti la stessa cosa. Nel Vaticano II c’era stata una proposta del genere, di omologare i consacrati. No, è un dono con una identità particolare, che viene tramite il dono carismatico che Dio fa a un uomo o a una donna per formare una famiglia religiosa.

E poi un problema: il problema di come si accompagnano i religiosi. Spesso le comunità, soprattutto femminili, nella nostra Chiesa locale hanno difficoltà a trovare seri accompagnatori e accompagnatrici, formatori, padri spirituali e confessori. O perché non capiscono cosa sia la vita consacrata, o perché vogliono mettersi nel carisma e dare interpretazioni che fanno male al cuore della suora… Stiamo parlando delle suore che hanno difficoltà, ma anche gli uomini ne hanno. E non è facile accompagnare. Non è facile trovare un confessore, un padre spirituale. Non è facile trovare un uomo con rettitudine di intenzioni; e che quella direzione spirituale, quella confessione non sia una bella chiacchiera fra amici ma senza profondità; o trovare quelli rigidi, che non capiscono bene dove sia il problema, perché non capiscono la vita religiosa... Io, nell’altra diocesi che avevo, sempre consigliavo alle suore che venivano a chiedere consiglio: “Dimmi, nella tua comunità o nella tua congregazione, non c’è una suora saggia, una suora che viva il carisma bene, una buona suora di esperienza? Fai la direzione spirituale con lei!” - “Ma è donna!” - “Ma è un carisma dei laici!”. La direzione spirituale non è un carisma esclusivo dei presbiteri: è un carisma dei laici! Nel monachesimo primitivo i laici erano i grandi direttori. Adesso sto leggendo la dottrina, proprio sull’obbedienza, di san Silvano, quel monaco del Monte Athos. Era un falegname, faceva il falegname, poi l’economo, ma non era neppure diacono; era un grande direttore spirituale! E’ un carisma dei laici. E i superiori, quando vedono che un uomo o una donna in quella congregazione o quella provincia ha quel carisma di padre spirituale, si deve cercare di aiutare a formarsi, per fare questo servizio. Non è facile. Una cosa è il direttore spirituale e un’altra cosa è il confessore. Dal confessore io vado, dico i miei peccati, sento la bastonata; poi mi perdona tutto e vado avanti. Ma al direttore spirituale devo dire cosa succede nel mio cuore. L’esame di coscienza non è lo stesso per la confessione e per la direzione spirituale. Per la confessione, devi cercare dove hai mancato, se hai perso la pazienza; se hai avuto cupidigia: queste cose, cose concrete, che sono peccaminose. Ma per la direzione spirituale devi fare un esame su cosa è successo nel cuore; quale mozione dello spirito, se ho avuto desolazione, se ho avuto consolazione, se sono stanco, perché sono triste: queste sono le cose di cui parlare con il direttore o la direttrice spirituale. Queste sono le cose. I superiori hanno la responsabilità di cercare chi in comunità, in congregazione, in provincia ha questo carisma, dare questa missione e formarli, aiutarli in questo. Accompagnare sulla strada è andare passo passo col fratello o con la sorella consacrata. Credo che in questo noi ancora siamo immaturi. Non siamo maturati in questo, perché la direzione spirituale viene dal discernimento. Ma quando tu ti trovi davanti a uomini e donne consacrate che non sanno discernere che cosa succede nel proprio cuore, che non sanno discernere una decisione, è una mancanza di direzione spirituale. E questo soltanto un uomo saggio, una donna saggia può farlo. Ma anche formati! Oggi non si può andare soltanto con la buona volontà: oggi è molto complesso il mondo e anche le scienze umane ci aiutano, senza cadere nello psicologismo, ma ci aiutano a vedere il cammino. Formarli con la lettura dei grandi, dei grandi direttori e direttrici spirituali, soprattutto del monachesimo. Non so se voi avete contatto con le opere del monachesimo primitivo: quanta saggezza di direzione spirituale c’era lì! E’ importante formarli con questo. Come riscoprire questa ricchezza? La vita consacrata per l’80% ha un volto femminile: è vero, sono più donne consacrate che uomini. Come è possibile valorizzare la presenza della donna, e in particolare della donna consacrata, nella Chiesa? Mi ripeto un po’ in quello che sto per dire: dare alla donna consacrata anche questa funzione che molti credono sia soltanto dei preti; e anche dare concretezza al fatto che la donna consacrata sia il volto della Madre Chiesa e della Madre Maria, e cioè andare avanti sulla maternità, e maternità non è soltanto fare figli! La maternità è accompagnare a crescere; la maternità è passare le ore accanto ad un malato, al figlio malato, al fratello malato; è spendere la vita nell’amore, con quell’amore di tenerezza e di maternità. Su questa strada troveremo di più il ruolo della donna nella Chiesa.

Padre Gaetano ha toccato vari temi, per questo mi è difficile rispondere… Ma quando mi dicono: “No! Nella Chiesa le donne devono essere capi dicastero, per esempio!”. Sì, possono, in alcuni dicasteri possono; ma questo che tu chiedi è un semplice funzionalismo. Quello non è riscoprire il ruolo della donna nella Chiesa. E’ più profondo e va su questa strada. Sì, che faccia queste cose, che vengano promosse – adesso a Roma ne abbiamo una che è rettore di una università, e ben venga! –; ma questo non è il trionfo. No, no. Questa è una grande cosa, è una cosa funzionale; ma l’essenziale del ruolo della donna va – lo dirò in termini non teologici – nel fare in modo che lei esprima il genio femminile. Quando noi trattiamo un problema fra uomini arriviamo ad una conclusione, ma se trattiamo lo stesso problema con le donne, la conclusione sarà diversa. Andrà sulla stessa strada, ma più ricca, più forte, più intuitiva. Per questo la donna nella Chiesa deve avere questo ruolo; si deve esplicitare, aiutare ad esplicitare in tante maniere il genio femminile.


Credo che con questo ho risposto come ho potuto alle domande e alla tua. E a proposito di genio femminile, io ho parlato di sorriso, ho parlato di pazienza nella vita della comunità, e vorrei dire una parola a questa suora che ho salutato di 97 anni: ha 97 anni... E’ lì, la vedo bene. Alzi la mano, perché tutti la vedano… Io ho scambiato con lei due o tre parole, mi guardava con gli occhi limpidi, mi guardava con quel sorriso di sorella, di mamma e di nonna. In lei voglio rendere omaggio alla perseveranza nella vita consacrata. Alcuni credono che la vita consacrata sia il paradiso in terra. No! Forse il Purgatorio… Ma non il Paradiso. Non è facile andare avanti. E quando io vedo una persona che ha speso la sua vita, rendo grazie al Signore. Attraverso Lei, suora, ringrazio tutte, e tutti i consacrati, grazie tante!